Genova, la città che si liberò da sola
Il video che presentiamo qui è stato prodotto dall’Istituto Luce-Cinecittà in occasione della Festa de l quotidiano La Repubblica a Genova nel giugno del 2015. Venne proiettato a corredo di una conferenza tenuta dallo storico prof. Antonio Gibelli intitolata “Genova 1943-’45. Forme, figure e scritture di Resistenza”. Il materiale con il quale è stato realizzato viene dai famosi “Combat Film” che diversi cineasti americani realizzavano al seguito delle truppe alleate che risalivano la penisola. Sono immagini molto belle: vi si vedono carri armati e camion Usa, soldati americani che fraternizzano con i partigiani e la popolazione, ma anche centinaia di prigionieri tedeschi scortati dai partigiani italiani. Sicuramente sono state girate il 27 aprile quando le truppe alleate entrarono nella città che, unica nel Paese, era già riuscita a liberarsi da sola costringendo il contingente tedesco (30 mila uomini al comando del generale Gunther Meinhold) ad arrendersi nella mani dell’operaio comunista Remo Scappini che rappresentava il CLN genovese. Al generale Usa Edward Almond non restò che complimentarsi con la famosa frase rivolta ai comandanti partigiani: “A wonderful job”, “Un lavoro meraviglioso”.
Un lavoro durato almeno un anno che, nelle ultime settimane aveva subito una forte accelerazione. Il 23 aprile, i partigiani (4/5 mila uomini in tutto) erano riusciti a mettere sotto controllo le vie di accesso alla città e i soldati tedeschi erano quasi allo sbando: tagliate le comunicazioni e le vie di fughe, circondati o costretti in posizioni praticamente indifendibili.
Nel CLN genovese, si svolse un serrato dibattito tra chi (comunisti, socialisti e azionisti) voleva far partire al più presto l’insurrezione popolare e chi (democristiani e autonomi) pensavano sarebbe stato meglio attendere l’arrivo delle truppe alleate ed evitare possibili spargimenti di sangue anche tra la popolazione. Anche la Chiesa puntava alla mediazione. Il cardinal Pietro Boetto (che negli anni passati aveva aiutato molti ebrei a salvarsi dalla persecuzione nazifascista), con l’aiuto del vescovo ausiliario Giuseppe Siri, puntava a ottenere qualche concessione per i tedeschi in modo di convincerli a lasciare Genova senza combattimenti e rappresaglie.
Ma il CLN genovese, con straordinario coraggio, seppe decidere (con 4 voti contro 2) che era giusto arrivare all’insurrezione popolare e che i tedeschi dovevano arrendersi senza condizioni e depositare le armi. Furono ore di forte tensione. Il generale Meinhold tentò anche la strada delle minacce annunciando che se non gli avessero concesso 4 giorni di tregua per lasciare indisturbato la città, avrebbe provveduto a bombardare Genova. Ma il comando partigiano ruppe ogni indugio e il 24 mattina cominciò la battaglia per Genova. Scesero in campo i Gap e le Sap, vi furono scontri nel Ponente, ma anche in Centro, addirittura in Piazza De Ferrari, con morti e feriti. I partigiani presero il Castello Raggio che sorgeva a Cornigliano su un promontorio a mare dove oggi c’è lo stabilimento dell’Italsider e fecero sapere a Meinhold che se avesse bombardato la città, i mille soldati tedeschi prigionieri sarebbero stati passati per le armi. Il generale tedesco era asseragliato in una villa a Savignone nell’immediato entroterra genovese. Qui venne raggiunto da Carmine Romanzi, il partigiano “Stefano” (che diventerà Magnifico Rettore dell’Ateneo genovese) latore di una lettera del CLN e di una missiva del cardinal Boetto. Entrambe gli consigliano di arrendersi. Meinhold, che, in fondo era un vecchio soldato e non voleva macchiarsi di un’inutile strage, fece sapere che era pronto alla resa.
Mentre in tutta la città ancora si combatteva, le parti in causa si trasferirono a Villa Migone, sede arcivescovile nella zona di San Fruttuoso. Ad accoglierle il cardinal Boetto con il console tedesco. Per il CLN c’erano il presidente Remo Scappini, il dottor Giuseppe Savoretti e l’avvocato Enrico Martino oltre al comandante dell’Esercito di Liberazione, maggiore Mauro Aloni.
La trattativa riprese e Meinhold tentò di nuovo di ottenere qualcosa. Il generale tedesco era provatissimo e le cronache raccontano che, a un certo punto, si sentì quasi male. Una parte dei suoi gli consigliavano di arrendersi ma altri gli ricordavano che gli ordini di Berlino erano di combattere fino all’ultimo e di mettere a ferro e a fuoco la città. A un certo punto, lo stesso cardinale gli fece presente che la partita era persa: “Generale, ormai Genova è perduta. Si renda conto che in caso di bombardamento nessun tedesco uscirà vivo da Genova. Eviti spargimenti di sangue”. I testimoni dicono che la firma sotto l’atto di resa fu quasi un gesto di liberazione e che Meinhold, alle 19,30 del 25 aprile, di scatto afferrò una penna e sottoscrisse il documento.
All’alba del 26 aprile, lo speaker di Radio Genova annunciò: “Popolo genovese esulta. L’insurrezione, la tua insurrezione, è vinta. Per la prima volta nel corso di questa guerra, un corpo d’esercito agguerrito e ancora bene armato si è arreso dinanzi a un popolo. Genova è libera. Viva il popolo genovese, viva l’Italia”. Verso sera un mesto corteo di seimila soldati tedeschi sfilò nel centro della città sotto il controllo di centinaia di partigiani in armi.
La sera del 26 e il giorno dopo arrivarono gli americani della 92esima divisione “Buffalo” della V Armata con i carri armati e le cineprese. Non ebbero bisogno di combattere perché il lavoro l’avevano già fatto i genovesi. Il generale Almond, da vero sportivo, si complimentò: “A wonderful job!”.